Accabadora di Michela Murgia

“Per me siete stata la prima, e se mi chiedeste di morire, io non sarei capace di uccidervi solo perché è quello che volete. Bonaria Urrai la fissò, e Maria vide che la vecchia era stanca. – Non dire mai: di quest’acqua io non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata.”







Vi è mai capitato di comprare tantissimi libri, sia cartacei che in formato digitale e poi dimenticare di averli? Ecco è quello che mi è accaduto con questo libro. Per mesi ho desiderato leggerlo, quando alla fine sono andata in libreria per prenderlo ero così felice, ma come ogni volta ne avevo uno in lettura così l’ho messo nella solita pila sul comodino. Pila che con il passare delle settimane è aumentata, ho tolto alcuni libri ne ho aggiunti altri, ne ho messi sul reader altri ancora e così mi è passato completamente di mente. L’altro giorno, disperata dopo aver interrotto una lettura, ma di questa vi parlerò in un'altro momento, sono andata a cercare qualcosa che potesse veramente piacermi e al tempo stesso risollevarmi il morale e alla fine ho trovato questo libro di Michela Murgia.
Sarò un pochino prolissa, ma devo assolutamente raccontarvi il motivo per il quale io abbia voluto così tanto questo libro e man mano recupererò anche quelli della stessa autrice. In primis, molti anni fa, quando ero ancora una ragazzina scoprii Grazia Deledda e Dacia Maraini, la prima con Canne al vento e la seconda con Bagheria; i luoghi di cui parlano sono differenti, gli stili anche, eppure hanno un qualcosa che le accomuna almeno dal mio punto di vista: loro parlano della loro terra. Parlano dei luoghi che conoscono, che hanno vissuto, scoperto e riscoperto dopo tanto tempo. Descrivono con le parole mondi così vicini al nostro e al tempo stesso così lontani, culture e tradizioni che esistono e al tempo stesso vanno perdendosi. Superstizioni e dialetti che sono a parer mio l’anima di un popolo, il loro cuore. Tramite le tradizioni si comprende come sono cresciute determinate persone, tramite la loro terra. E la Deledda, come Dacia Maraini nei loro scritti hanno descritto quelle terre di cui sono originarie in maniera perfetta. Tutto questo giro di parole per dire che quando ero solo una ragazzina mi sono accorta di amare libri del genere, che parlano dell’Italia, di luoghi che sono vicini, ma al tempo stesso così lontani. Di tradizioni differenti rispetto a quelle a cui sono abituata e la Murgia con questo libro è riuscita a descrivere la Sardegna con la stessa delicatezza e anche con obiettività, con gli occhi di chi conosce quei luoghi, ma al tempo stesso li osserva dall’esterno per la prima volta.


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Maria e Tzia Bonaria vivono come madre e figlia, ma la loro intesa ha il valore speciale delle cose che si sono scelte. La vecchia sarta ha visto Maria rubacchiare in un negozio, e siccome nessuno la guardava ha pensato di prenderla con sé, perché «le colpe, come le persone, iniziano a esistere se qualcuno se ne accorge». E adesso avrà molto da insegnare a quella bambina cocciuta e sola: come cucire le asole, come armarsi per le guerre che l'aspettano, come imparare l'umiltà di accogliere sia la vita sia la morte.
D'altra parte, «non c'è nessun vivo che arrivi al suo giorno senza aver avuto padri e madri a ogni angolo di strada».
Perché Maria sia finita a vivere in casa di Bonaria Urrai, è un mistero che a Soreni si fa fatica a comprendere. La vecchia e la bambina camminano per le strade del paese seguite da uno strascico di commenti malevoli, eppure è così semplice: Tzia Bonaria ha preso Maria con sé, la farà crescere e ne farà la sua erede, chiedendole in cambio la presenza e la cura per quando sarà lei ad averne bisogno.
Quarta figlia femmina di madre vedova, Maria è abituata a pensarsi, lei per prima, come «l'ultima». Per questo non finiscono di sorprenderla il rispetto e le attenzioni della vecchia sarta del paese, che le ha offerto una casa e un futuro, ma soprattutto la lascia vivere e non sembra desiderare niente al posto suo. «Tutt'a un tratto era come se fosse stato sempre così, anima e fill'e anima, un modo meno colpevole di essere madre e figlia».
Eppure c'è qualcosa in questa vecchia vestita di nero e nei suoi silenzi lunghi, c'è un'aura misteriosa che l'accompagna, insieme a quell'ombra di spavento che accende negli occhi di chi la incontra. Ci sono uscite notturne che Maria intercetta ma non capisce, e una sapienza quasi millenaria riguardo alle cose della vita e della morte.
Quello che tutti sanno e che Maria non immagina, è che Tzia Bonaria Urrai cuce gli abiti e conforta gli animi, conosce i sortilegi e le fatture, ma quando è necessario è pronta a entrare nelle case per portare una morte pietosa. Il suo è il gesto amorevole e finale dell'accabadora, l'ultima madre.


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Mi sono innamorata di questo libro sin dalle prime battute.
Mi sono innamorata delle descrizioni di questa Sardegna che non conosco, dove negli anni del dopoguerra sta arrivando la modernità, dove le persone sono così tanto legate al passato, alle tradizioni rurali di luoghi lontani da tutto e tutti. Luoghi dove le usanze e le superstizioni seguono ogni minimo gesto di chi abita in questi paesini. Non parlo solo dell’Accabadora, parola e figura, che dà il titolo al libro, ma anche del comportamento delle persone. In questa Sardegna proiettata verso il futuro, ma ancora radicalmente ancorata alle sue tradizioni, gli uomini sono legati al loro onore, per ogni gesto, per ogni azione, per ogni onta subita deve essercene una di rimando, per mantenere alto il nome della famiglia, per non essere derisi da tutti.

La storia, leggendo la trama, sembra essere apparentemente semplice: la vecchia Bonaria Urrai, sola e senza figli, decide di prendere con sé la più piccola delle figlie di Anna Teresa Listru,  un gesto semplice che potrebbe avere mille significati: pietà, paura della solitudine, aiutare una vedova con quattro figlie di cui tre da maritare; aiutare la quarta di queste figlie a non essere solo l’ultima, un errore, ma qualcosa in più. E di fatti molta parte della storia gira attorno alle due donne protagoniste, madre adottiva e figlia. Una donna con tutta la vita alle spalle e una ragazza che ancora deve conoscere il futuro. Ma non è solo questo, questo libricino parla di molto altro, come ho scritto sopra della tradizioni di zone così vicine e al tempo stesso così lontane, di superstizioni, dell’Italia unita, ma al tempo stesso differente a seconda delle zone dove si è cresciuti.
Questo libro va oltre alle tradizioni, e qui torniamo al titolo: Accabadora. Prima di continuare con la recensione metterò cosa significa questo termine.

Accabadora: Con il termine sardo femina accabadora, oppure femina agabbadòra, comunemente accabadora (s'accabadóra, lett. "colei che finisce", deriva dal sardo s'acabbu, "la fine") si soleva indicare una donna che uccideva persone anziane in condizioni di malattia tali da portare i familiari, o la stessa vittima, a richiederne l'eutanasia. Il fenomeno avrebbe riguardato alcune regioni sarde come Marghine, Planargia e Gallura.


Nel libro spiegano in maniera molto poetica questa figura. Questa donna che di notte, chiamata dai parenti, porta una fine tanto desiderata ai poveri ammalati che non fanno altro che soffrire. Da quanto scritto nel libro una diceria di quei luoghi afferma che gli uomini non nascono soli e che non devono morire da soli, ecco a cosa serve anche la figura dell’Accabadora, che pietosa, di notte, chiamata dalle famiglie porta la fine come atto di pietà e senza che i malcapitati se ne vadano in solitudine. Ho riflettuto molto su questa parte del libro, sicuramente in molti che chiamavano l’accabadora pensavano a una forma di pietà per l’ammalato sofferente, ma sicuramente lo facevano anche per le famiglie: un disabile doveva essere continuamente accudito, era una bocca da sfamare che non aiutava nei campi e toglieva braccia agli stessi.
Non mi soffermerò a dire cosa penso o non penso dell’eutanasia, non è quello di cui devo parlare, ma è solo un appunto per far comprendere a cosa servisse questa figura, che in molti pensano non sia nemmeno mai esistita, che sia solo una leggenda.

La Murgia scrive benissimo, ho adorato le descrizioni di questo tempo passato, delle piccole comunità sarde e di come vivono; ho amato il modo in cui catapulta il lettore lontano da casa, nelle pagine del libro e poi oltre, in Sardegna, in questi luoghi isolati di tanto tempo fa, fra contadini e pastori che vivono giorno dopo giorno una vita fatta di lavoro e campi, di credenze popolari e preghiere. Mi ha incantato con i suoi personaggi, con la vecchia e saggia Bonaria Urrai, l’accabadora che ha una visione molto ampia della vita, molto più di aperte vedute di diverse persone sia nel libro che reali. Come se lei sapesse come vanno le cose del mondo, cosa accadrà e i discorsi che saranno fatti.
Ho apprezzato Maria, la sua intelligenza, il modo in cui è cresciuta, e al tempo stesso la sua ingenuità. In tutto il paese sembra essere l’unica a non avere idea di cosa la sua madre adottiva faccia e quando lo scopre tutta l’indignazione si impossessa di lei, perché non comprende, perché uccidere è sbagliato dal suo punto di vista. Un punto di vista che non può modificare fino a quando non si renderà conto di quanto chi soffre non cerca altro che pace e la liberazione dal dolore, qualunque essa sia. In alcuni casi la morte non fa più così tanta paura.
Un altro personaggio che ho apprezzato, non tanto perché mi piacesse, ammetto che in tutti i suoi atteggiamenti lo avrei preso a randellate, ma proprio perché suscitava in me queste reazioni sta a significare che è veramente ben caratterizzato, è Nicola Bastiu, il fratello del migliore amico di Maria. Questo ragazzo ha un carattere forte, è orgoglioso e anche imprudente, tanto che per rivendicare l’onore della famiglia per un torto subito gli hanno sparato e poco dopo gli hanno dovuto amputare una gamba. Ora da quel momento in poi Nicola è costretto a letto, intrappolato in una vita che non vuole, in un corpo che non gli concede di essere veramente lui e si considera un peso per la sua famiglia. Questa condizione lo porta a desiderare di morire, a tenere a distanza gli altri, eppure nelle sue battute, nel suo comportamento da quello che Bonaria Urrai vede nei suoi occhi, lui non è sconfitto, per nulla. La sua volontà è salda, rimane un uomo forte, un uomo che desidera morire perché ormai nel suo mondo, in quella comunità dove è nato e cresciuto, è inutile. Lui stesso afferma che nessuna donna lo vorrebbe mai visto che non può mantenere una famiglia e non può e vuole obbligare la futura moglie di suo fratello a occuparsi di lui.
Proprio questo lato del suo carattere, questa forza convincono la vecchia Bonaria Urrai a esaudire la richiesta del ragazzo. Vuole morire, tornare a essere libero e forte come prima dell’amputazione ed è pronto a uccidersi da solo se la vecchia non lo farà.


“Come gli occhi della civetta, ci sono pensieri che non sopportano la luce piena. Non possono nascere che di notte, dove la loro funzione è la stessa della luna, necessaria a smuovere maree di senso in qualche invisibile altrove dell’anima. Di quei pensieri Bonaria Urrai ne aveva diversi, e aveva imparato nel tempo a prendersene cura, scegliendo con pazienza in quali notti farseli sorgere dentro. Non aveva pianto molto mentre veniva via da casa dei Bastìu portandosi il peso del respiro di Nicola, ma ognuna di quelle lacrime aveva lasciato un solco nuovo sul volto dell’accabadora già segnato dal tempo. Se il sole fosse sorto in quel momento Bonaria Urrai sarebbe sembrata di molti anni più vecchia di quanto non fosse, e lei quegli anni se li sentiva uno per uno. Erano passati decenni da quando aveva visto acconsentire per la prima volta a una richiesta di pace fatta in letto di morte, ma avrebbe potuto dire con certezza che né allora né poi c’era mai stato quel peso che ora si sentiva addosso come un manto bagnato.”


Consiglio la lettura di questo libro. L’autrice è bravissima e man mano recupererò tutte le sue opere. La prossima in lettura sarà Chirù. Comunque dicevo, ha un modo di scrivere elegante, travolgente, trasportando il lettore nelle pagine del suo libro, descrivendo una società, una cultura di altri tempi. Facendo affiorare dagli atteggiamenti e dalle parole dei personaggi l’orgoglio di una terra e di coloro che vi abitano.

Veramente una delle migliori letture che ho affrontato quest’anno.

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